TRADIZIONI USANZE LUOGHI




CASTELLO CALDORESCO - Vasto



La storia del castello è strettamente legata alla figura di Giacomo Caldora, il capitano di ventura che nel 1439, impadronitosi della città, provvide alla sua fortificazione con il rinnovamento delle mura e l'aggiornamento della fortificazione ai nuovi sistemi difensivi. Il forte venne ad impiantarsi su una precedente costruzione, la quale a sua volta poggiava le proprie fondazioni sulle strutture murarie che costituivano l'entrata settentrionale dell'anfiteatro romano di Histonium e che sono ancora chiaramente visibili dai sotterranei del palazzo. L’edificio originario aveva probabilmente una pianta rettangolare, come l'attuale, ma più piccola, con quattro torri cilindriche agli angoli e un'altra torre maggiore al centro del cortile. Nel 1439 il forte viene trasformato e rinforzato da grandi bastioni angolari a mandorla e irrobustito da più spesse cortine murarie.
Sul lato occidentale del perimetro urbano che comprende anche il castello oggi è possibile osservare come il sistema difensivo delle mura urbiche si completi con le torri di Bassano, di Santo Spirito e Diomede del Moro, alterate nell’impianto quattrocentesco a seguito delle sopraelevazioni successive.
In seguito alle distruzioni subite dalla popolazione vastese nel corso dei tumulti del XV secolo, il castello venne fortemente rimaneggiato sul finire dello stesso secolo da Innico d’Avalos, al quale si devono molti degli interventi che hanno conferito alla costruzione l'aspetto attuale: egli vi fece ricostruire i 4 baluardi, ricavare i fossati e la torre che si vede a Nord.
Il restauro effettuato dai d’Avalos, pur grossolano, rispettò le linee architettoniche primitive, donando all'edificio una certa continuità fino al 1816, data che sarà ricordata come l'inizio di un inesorabile stravolgimento dell'intero fabbricato. Nuove costruzioni di tutt’altro stile, infatti, si legarono gradualmente alla struttura, fino a rendere il lato occidentale praticamente irriconoscibile. Oggi il forte si presenta dunque come un monumento "palinsesto", con i bastioni aragonesi che avvolgono il precedente nucleo angioino e con aggiunte e sopraelevazioni esterne, iniziate a partire dal XVIII secolo, che hanno via via privato la struttura del suo uso e dunque del suo aspetto militare, per adeguarlo a nuove funzioni residenziali.



San Tommaso - Ortona




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Bosco Vicenne (Fraine)


A circa 2 km dal centro abitato di Fraine, si estende Bosco Vicenne, un ambiente naturale di straordinario fascino, da percorrere attraverso i suoi sentieri battuti o i percorsi di trekking. Lungo questi percorsi, le specie arboree più significative sono la roverella, l’ornello, il carpino nero, il carpino bianco, l’acero montano e il cerro. Tra questi rami è facile incontrare il picchio o la ghiandaia dei boschi, la tortora e la beccaccia. Ma Bosco VIcenne è anche soprattutto un luogo carico di storia e misticismo. È il regno delle leggende, degli echi delle scorribande dei briganti, dei racconti tramandati dai pastori, e anche delle sacre apparizioni. Secondo la tradizione orale è dalla voce proveniente da una quercia del bosco che la Madonna si rivela ad una pastorella sordomuta facendola guarire miracolosamente. Ed è dalla fortuna di questo racconto che sotto le fronde di quegli stessi alberi il bosco custodisce in un clima di pace mistica il Santuario campestre di Santa Maria di Mater Domini, di fondazione benedettina. Il 31 Maggio di ogni anno, il giorno della Festa, il bosco vede confluire ogni anno sui suoi prati, antistanti la piccola chiesa, gli abitanti dei comuni di Fraine, Castiglione Messer Marino, Carunchio e Roccaspinalveti.
Ma il bosco accoglie anche i devoti del Romitorio San Domenico, la cui origine è legata al racconto di un altro straordinario miracolo. Questa volta è dal buco di un fosso nel bosco che si ode la voce di San Domenico, invocato da un contadino caduto in una voragine piena di serpi. Scampato alle serpi per intercessione del Santo, l’uomo diede in dono al curato i suoi beni per far costruire la chiesetta affinché tutto il paese e i pastori del luogo, che in quelle terre portavano al pascolo le loro greggi, potessero trovar aiuto e protezione dal Santo Taumaturgo ed aver rifugio e consolazione nella fatica e solitudine legata alla vita dura del pastore.
Bosco Vicenne vanta pure la presenza di reperti archeologici significativi come presunte postazioni romane e Are votive. La presenza di materiale archeologico attesta forse che quest’area fu frequentata sin dall’antichità e non è da escludere che le chiese non siano anche la continuazione di un culto pagano che in seguito assunse forme e contenuti cristiani.


Loggia Amblingh


Sulla passeggiata orientale che fiancheggia il borgo antico, partendo dai giardini di Palazzo d’Avalos, si apre la Loggia Amblingh, una splendida balconata sospesa a picco tra i mattoni pregni di storia della città e le sottostanti campagne d’ulivi, aranci e orti digradanti verso il mare. Da qui, con un solo colpo d’occhio si può ammirare il bellissimo golfo d’oro di Vasto, le colline del vicino Molise, le propaggini della Montagna Garganica e le Isole Tremiti.
La loggia prende il nome dall’austriaco Guglielmo Amblingh di Graz, segretario di Cesare Michelangelo d’Avalos, residente a Vasto all'inizio del Settecento.
Le alte case e gli stretti vicoli della Loggia hanno ospitato per anni pescatori, facchini, discendenti di scudieri marchesali o di cavallari, impegnati nelle ricognizioni costiere per avvistare le navi turche: siamo nel quartiere di Santa Maria che rappresenta bene lo spirito popolare vastese.
Proseguendo la passeggiata si arriva all’alta casa di Gabriele Rossetti, sede di una delle Biblioteche comunali. Intorno alle case-mura della Loggia Amblingh si trova, più avanti, l’unica porta urbica medievale rimasta della città, Porta Santa Maria, detta anche “Porta Catena”, con arco a sesto acuto sormontato da una graziosa loggetta. Sul capo meridionale, nel punto più alto della Loggia, sono visibili due grandi cisterne romane ancora intatte, che stanno a dimostrare quanto abbondante fosse l’acqua a disposizione dei vastesi di un tempo, i quali, nelle opere idrauliche, erano dei veri maestri.


Agnone – Città d’arte


Nobile centro situato ad 840 mt., dalle vetuste chiese ricche di portali egregi, è luogo dove le epoche si sovrappongono e si fondono in un odore di operosità. Città medioevale stemmata di blasoni per ben due volte, meritò di fregiarsi Città Regia, ha parlato e parla al mondo con la voce bronzeo argentina delle sue campane, addolcisce il suo amaro socio economico con la soavità zuccherina dei suoi confetti mandorlati ricci e le praline al tartufo bianco. Agnone ha nel suo carattere di “nobile e gentile signora” la possibilità di cordiale accoglienza, di pronta ospitalità e dell’invito ad ogni ritorno. Arrivando in Agnone il colpo d’occhio è gioioso fra boschi di abete bianco verdissimi e prati fioriti, si allunga su un crinale stagliando contro uno scenario di montagne , le case con i balconi di ferro battuto, i palazzi di pietra ed una selva di campanili.Dal 2002 Agnone è Bandiera Arancione, marchio di qualità Turistico Ambientale dell’entroterra italiano.


La Presentosa: un simbolo d’amore
Gioiello tipico della tradizione orafa abruzzese. Tale gioiello,diventato famoso per la descrizione che ne fa D’Annunzio nel “Trionfo della morte”, ha origine quasi certamente settecentesca. La sua forma ‘tipica’, così denominata perché più conosciuta , è composta da un telaio (o scafo) di forma stellare, il cui spazio circolare interno è riempito da spira lette realizzate in filigrana o in cordellina semplice. Al centro campeggiano due cuori,uniti da un crescente lunare rovesciato (simboli di amore e felicità). Lo stesso gioiello,però,veniva prodotto anche con varianti al motivo classico, poiché ogni orafo ambiva a differenziare la sua opera,creando uno stile,quanto più possibile,personale,oppure,perché lo realizzava seguendo il gusto e le esigenze del committente, arricchendo il medaglione di contenuti simbolici genericamente apotropaici o specifici.
Questo gioiello lo ricevevano le giovani donne come promessa d’amore, era un ‘dono’, un ‘presente’ da cui deriva la definizione dialettale ‘presentenze’ e la successiva ‘presentosa’. I luoghi di produzione più antichi di questo gioiello sono stati individuati a Guardiagrele e ad Agnone. Altri centri di produzione,nel tempo, furono l’Aquila, Sulmona, Pescocostanzo e Scanno.


Rifugio Guadolicia - Agnone








A confine tra l’Abruzzo ed il Molise e precisamente di fronte alle frecce direzionali Agnone e Capracotta, c’è un rifugio della provincia molisana, gestito e curato da Mina che si chiama "Rifugio Guadolicia" .Alle 5 e 45 di ogni giorno Mina alza il “sipario” di quel piccolo palco a 1088 mt, a servizio degli agricoltori,fornitori,operai che passano di lì per andare al lavoro. Un caffè,un cappuccino,un grappino e altro ancora, sono il buongiorno di Mina… ma non solo. All’interno c’è una saletta con camino e tre tavoli con una finestra che affaccia…sul mondo. Tutto in stile rusticamente caldo.All’esterno è attrezzato per ospitare, quando il bel tempo lo permette, offrendo anche la possibilità di fare la brace per chi ,con pochi intimi,vuole cucinare all’aperto.Ma non finisce qui. Mina prepara un happy hour (termine che non si addice a quell’ambiente) totalmente imparagonabile a quello di città. Produzione propria di: prosciutto crudo,caciocavallo,pizza con pomodorini,frittata, il tutto accompagnato con un saporito vino bianco prodotto dal padre. Che dire ancora.. forse che non diventi un luogo tanto frequentato da dover cambiare ritmi ed ampliare l’offerta, o forse che possa essere la giusta alternativa ai bar e localini della zona da raggiungere a piedi, mentre da lei è obbligatoria l’auto o il cavallo o il mulo e probabilmente il bob invernale.La risposta la conosce solo Mina. …. Cala il sipario alle 20.30.















Lo stemma araldico di Sulmona è il più antico
Uno scudo gotico antico sul cui campo, rosso, risplendono 4 lettere d’oro, sintesi del verso ovidiano “Sulmo Mihi Patria Est”, Sulmona è la mia patria. E’ lo stemma comunale della città peligna ed è il più antico stemma civico di concessione reale documentato – come risulta dalla ricerca condotta dallo studioso di araldica sulmonese Fabio Maiorano - . Lo stemma di Sulmona fu concesso da Ladislao di Durazzo a Sulmona nel 1410,ma era di epoca anteriore. Il sovrano restituì a Sulmona un antichissimo privilegio, quel sigillo che nel 1279 Carlo I d’Angiò aveva fatto distruggere in tutte le principali città del regno perché simbolo di libertà ed autonomia dei Comuni dell’autorità regia. Autonomia e prestigio che non poteva che possedere Sulmona, capitale d’Abruzzo al tempo di Federico II.  Tra i monumenti cittadini emerge che il più antico stemma civico di Sulmona, e si presume dell’intero Abruzzo, è scolpito sulla torre centrale dell’abside della cattedrale di San Panfilo ed è databile tra la fine del XIII e l’inizio del XIV sec. Forse era proprio questa l’arma civica di Sulmona, “dismessa” negli anni successivi al diploma di Ladislao per seguire il modello dello stemma di Roma. Con emblema dell’Urbe lo stemma ovidiano condivide:’Smalti: rosso per il campo e oro per la sigla; numero di lettere nell’acronimo (4)e posizione nello scudo (un banda). Ma mentre l’arma di Roma con la sigla Spqr ordinata in banda potrebbe risalire al ‘300, si può ipotizzare che Sulmona abbia avuto in epoche precedenti uno stemma identico a quello descritto nel diploma di Ladislao, forse proprio lo scudo che adorna l’abside di San Panfilo. E il cerchio si chiude e la storia continua, con quel sigillum che,dal 2005, è tornato a re identificare la città di Sulmona condensando in emblema “vincolo indissolubile dei Sulmonesi con la terra natia e con le radici”.



Il carabiniere Chiaffredo Bergia
La repressione del banditismo nella Valle del Trigno

Il plebiscito del 21 Ottobre del 1860 sancisce l'adesione delle province borboniche, fra qui quella di Chieti, allo Stato Italiano unitario. Ma le aspettative suscitate nel mondo contadino dall'impresa garibaldina (abolizione della tassa sul macinato,divisione dei demani) vennero presto disattese dai piemontesi, generando un diffuso malcontento.Il nuovo ordine impose la leva obbligatoria, nuove tasse,leggi anticlericali...una miscela esplosiva che diede il 'là' al fenomeno del brigantaggio. In tutta la provincia teatina le bande dei briganti si formarono per lo più con elementi del posto ad opera dei capi del partito borbonico dei vari paesi. Fra costoro, purtroppo, vi erano anche Sindaci, che all'occorrenza s'atteggiavano a vittima dei briganti allorchè sopraggiungeva la forza pubblica. Nel considerare il fenomeno del brigantaggio degli anni '60 bisogna far differenza fra le sommosse organizzate a scopo politico e quei fatti che invece avevano per unico fine il furto e la rapina. Le sommosse politiche caratterizzarono i primi anni '60,successivamente e per molti anni ancora il brigantaggio fu un fenomeno le cui idealità politiche andarono via via sbiadendosi affermandosi, invece, le caratteristiche di illegalità e di associazione delinquenziale. Contro il brigantaggio il Governo italiano decretò lo stato di assedio ed emanò leggi eccezionali (legge Pica). La repressione  fu affidata all'esercito per oltre un decennio nell'Italia meriodionale. Nel circondario di Vasto e San Salvo tra i capi banda più noti vi furono i fratelli Giuseppe e Michelangelo Pomponio, originari di Liscia, Pasquale d'Alena, Berardino di Nardo: sulla loro testa pendeva una cospicua taglia, ma invano i carabinieri avevano cercato di arrestarli giacchè gli sforzi erano paralizzati da una rete di confidenti e 'manutengoli' che offrivano aiuto ai malfattori. La torre di Montebello fu per diversi mesi la fortezza dei fratelli Pomponio. Racconta il Piovesan ne "La città di San Salvo" dopo una sistematica battuta per le campagne e boscaglie di San Salvo, di Lentella, di Fresagrandinaria, di Petacciato e di Montenero di Bisaccia,avevano stretto la sacca attorno alla torre. La resistenza fu disperata:si sparò dalla torre fino all'ultima pallottola. Nella notte approfittando della conoscenza dei luoghi i due capibanda con pochi altri riuscirono a fuggire. La maggior parte era caduta sotto il piombo o era stata fatta prigioniera. I fratelli Pomponio poternono riorganizzarsi e riprendere le loro gesta scellerate. La vittima scelta a pagare per tutti fu luigi Ciavatta,capitano della Locale Milizia Nazionale,l'artefice della disfatta di Montebello. Luigi Ciavatta fu ucciso il 16 settembre 1868 in un luogo poco fuori dal paese,che da allora venne chiamato "contrada della disgrazia". Il Sindaco Giuseppe Ciavatta,fratello dell'ucciso,fece intensificare la lotta contro i briganti. Nella repressione del banditismo nel vastese si era reso famoso il carabiniere piemontese Chiaffredo Bergia,figlio del popolo, chiamato giustamente 'l'eroe degli Abruzzi". Il Bergia dopo aver dato prova del suo non comune coraggio in numerose azioni contro la temibile banda del Taburini, venne promosso brigadiere e fu messo a capo di una colonna mobile,con la quale si diede ad una caccia spietata de' i briganti. Forse proprio dal brigante Tamburini, il Bergia apprese l'arte del travestimento, infatti si mascherava fulmineamente da frate,da contadino,da donnicciola,da mendicante e persino da brigante. Poi al momento opportuno s'avventava sul malfattore per ingaggiare con lui una lotta corpo a corpo e riusciva sempre a mettergli le manette. Finalmente venne l'ora della resa dei conti anche per i fratelli Pomponio. Con la loro morte e quella dei loro compagni,fu quasi totalmente estirpata, nei nostri territori, la mala pianta del brigantaggio. Il Bergia fu decorato della medaglia d'oro al valor militare.

Antonio Cilli




















IL FUOCO DI SANT’ANTONIO
 Antonio abate fu un eremita egiziano, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. Morì il 17 gennaio all’età di 107 anni.
Tutti coloro che hanno a che fare con il fuoco vengono posti sotto la protezione di Sant'Antonio, in onore del racconto che vedeva il Santo addirittura recarsi all'inferno per contendere al demonio le anime dei peccatori. Per questo, tra i molti malati che accorrevano per chiedere grazie e salute, molti erano afflitti dal male degli ardenti, conosciuto anche come fuoco di Sant’Antonio’ e corrispondente a due diverse malattie: l'ergotismo’, causato da un fungo parassita delle graminacee, e l'herpes zoster, causato dal virus varicella-zoster.
Sant'Antonio tuttavia è considerato anche il protettore degli animali domestici, tanto da essere solitamente raffigurato con accanto un maiale che reca al collo una campanella. Il 17 gennaio tradizionalmente la Chiesa benedice gli animali e le stalle ponendoli sotto la protezione del santo.
La tradizione deriva dal fatto che l'ordine degli Antoniani aveva ottenuto il permesso di allevare maiali all'interno dei centri abitati oltre che nelle campagne poiché con il grasso di questi animali si preparava un balsamo medicamentoso per ungere gli ammalati colpiti dal fuoco di Sant'Antonio o ‘fuoco sacro’ . I maiali erano nutriti a spese della comunità e circolavano liberamente nel paese con al collo una campanella.

Per la cultura contadina la festa del 17 gennaio apre il ciclo dell’anno che sta ad indicare le opere da compiere e i lavori da eseguire nelle campagne. Il giorno del Santo continua ad essere un “giorno di fuochi”. In tanti piccoli centri la gente prepara enormi cataste di legna (‘focaracci’) che,accesi, rischiareranno piazze e scorci illuminando facciate di palazzi e chiese nei tanti borghi abruzzesi: “i fuochi di Sant’Antonio”.
Caratteristica risulta la festa che si svolge a Collelongo (AQ) nella notte tra il 16 ed il 17 di gennaio. La festa inizia la sera del 16 alle 18,00 con l'accensione dei due "torcioni", torce in legno di quercia alte oltre 5 metri che arderanno tutta la notte.Contemporaneamente in apposite case del paese allestite per l'occasione con arance ed icone del santo viene posta sul fuoco la "cottora", un enorme pentola nella quale viene messo a bollire parte del mais raccolto durante l'anno. La sera, chi ha la fortuna di essere invitato da qualche famiglia del paese potrà gustare intorno alla tavola la "pizza roscia", una pizza cotta sotto la cenere composta da un impasto di farina di grano e di mais, condita con salsicce ventresca e cavolo ripassato in padella. Alle 21 una fiaccolata con fisarmoniche e cantanti che intonano la canzone del santo accompagna il parroco del paese a benedire queste case ove, sopra il fuoco del camino, fuma per tutta la notte la cottora. Chiunque entra nella cottora, fa gli auguri alla famiglia che la gestisce e gli viene offerto vino, companatico, mais bollito condito con olio e peperoncino, e dolci. Per tutta la notte, fino al mattino, il paese è animato da gente che canta, suona e gira di cottora in cottora. Alle cinque del mattino del 17, spari annunciano la sfilata delle conche "rescagnate", si tratta di conche in rame, una volta usate per attingere l'acqua alla fonte, che addobbate con luci, piccole statue e scene di vita contadina, vengono portate in sfilata da giovani del paese vestiti nei tradizionali costumi popolari di festa. Alle sette inizia la santa messa e viene distribuito il mais benedetto bollito delle cottore per distribuirlo agli animali domestici. La festa si conclude il pomeriggio con i classici giochi popolari.
Sempre in Abruzzo, è da ricordare la rievocazione de "Lu Sant'Andonie" che si svolge ogni anno a Villa San Giovanni di Rosciano, nelle campagne del pescarese. Nel pomeriggio del sabato precedente al 17 gennaio sul sagrato della chiesa parrocchiale si ripropone la sacra paraliturgia per la benedizione degli animali e dei prodotti della terra, mentre in serata, nella piazza principale del paese, attorno ad un grande fuoco si esibiscono gruppi di teatranti popolari rievocanti le scene de "Le tentazioni di Sant'Antonio", con canti e poesie dialettali sul Santo e sulle tradizioni contadine del periodo invernale. Al termine, porchetta, salsicce e vino per tutti gli intervenuti. Ancora in Abruzzo, a Lettomanoppello si rievoca ogni anno "lu Sant'Andonije" che è una rappresentazione sacra della vita del santo composta e musicata da un poeta dialettale lettese (di Lettomanoppello), il Prof. Gustavo De Rentiis, scomparso nel 1994. Si tratta di una vera e propria storia sacra (a differenza delle altre rappresentazioni abruzzesi a volte goliardiche) che vede la partecipazione degli eremiti, di Sant'Antonio Abate, di due angeli e di due demoni che dopo alcune tentazioni agli anacoreti vengono cacciati all'inferno, grazie alla preghiera. Sant’Antonio abate da eremita ed asceta a grande taumaturgo; da ‘medico’ a santo contadino, protettore degli animali. Il maiale, il fuoco, la campanella, il Tau (il bastone eremitico caratteristico degli antoniani)…simboli che narrano del suo lungo cammino per tutto l’Occidente.



MAFALDA (CB) – Notizie storiche

Ripalta sul Trigno: L'abitato ebbe tale nome per essere posto su di un colle all'altezza di m. 436, a breve distanza dal Trigno. Nell'epoca Angioina (1266-1442) era detta "Trespaldum". Rimase disabitata nella prima metà del secolo XV, rifiorì nella seconda metà dello stesso secolo, per l'interessamento degli Evoli, suoi signori feudali, che vi chiamarono gli slavi a coltivare le terre. Con R.D. del 1903  fu mutato il proprio nome antico da "Ripalta sul Trigno" in quello attuale di Mafalda, in omaggio alla principessa omonima (secondogenita di Vittorio Emanuele III).
Il paese mostra la sua origine medievale. Si distinguono nel susseguirsi di edilizia comune la chiesa di S. Andrea Apostolo e il Palazzo Juliani. Di notevole pregio artistico solo le campane ed il portone in bronzo della chiesa. I primi abitanti di Ripalta si fanno risalire all’ XII sec. In Contrada Colle Trasole dove si ipotizza vi fosse edificata una Villa Romana abitata e funzionante in quell’epoca. Allora il territorio di Ripalta   era interamente ricoperto da un fitto bosco e questi terreni coltivabili erano una risorsa prioritaria insieme all’acqua. All’epoca, per poter coltivare la terra, si preferiva scegliere dei terreni vicino al letto del fiume, sia per la presenza d’acqua che per la qualità del medesimo terreno che era molto facile da lavorare; contrariamente, bisognava disboscare per rendere coltivabili i terreni. Viste le scarse attrezzature dell’epoca, visto il lavoro molto faticoso da impiegare e vista la mancanza di braccianti, che all’epoca scarseggiavano per questi lavori (gli uomini, infatti, erano impegnati nelle numerose battaglie di quel periodo), proprio per tutti questi motivi, si ricercavano sempre quei terreni dove tutto ciò era già presente in natura. Il territorio era ricco e gran parte del sostentamento avveniva naturalmente attraverso la cacciagione; tutto ciò che il bosco offriva in abbondanza, insieme al fiume molto pescoso, riusciva a soddisfare le richieste e le necessità di questo nucleo abitativo. I terreni antistanti si prestavano per essere coltivati con limitata manodopera: si coltivavano le viti, i frutteti ed un’elevata varietà di legumi, di cereali ed ogni tipo di ortaggi. Al giorno d’oggi, non si hanno notizie a chi questa Villa appartenesse, trovandosi quest’ultima a confine tra i Sanniti e i Frentani. Tuttavia, visti i reperti ritrovati e le dimensioni della Villa, se si fa riferimento alle mura di cinta che sono venute alla luce negli anni in cui si costruiva la strada Ripaltina, si pensa fosse abitata da una personalità importante, in quanto all’interno della struttura doveva esserci anche una stanza termale. Nel primo dopoguerra, lavorando i campi con i mezzi meccanici che andavano più in profondità, sono stati riportate alla luce molte tombe di epoca romana, alcune delle quali all’interno avevano ampolle, lucerne ed utensili per la cucina. Tutti questi manufatti, se non per pochi oggetti che i proprietari di terreni custodiscono nelle loro abitazioni, sono andati distrutti sotto i cingoli dei trattori, un pò perché s’ignorava la loro presenza, un pò perché si riteneva che questi oggetti fossero appartenuti a defunti e perciò da non riportare a casa per paura degli spiriti.

IL COMMERCIO DELLA NEVE: un’attività antichissima che permetteva ingenti guadagni.

I centri montani e pedemontani della Maiella rappresentavano l’area di maggiore intensità per la raccolta e la  conservazione della neve. Il prodotto veniva prelevato ed immagazzinato nelle “neviere” (depositi) per essere venduto nelle località della fascia adriatica. Tra gli atti del “Parlamento teatino” (organo legislativo del 1600) si evincono notizie sul commercio della neve in Abruzzo Citra (la provincia di Chieti di allora). Alcune delibere riguardavano l’approvazione dell’affitto del commercio della neve a cura del Comitato quale organo amministrativo dell’epoca.  Tali delibere stabilivano che una parte dei proventi fossero destinati alla copertura di spese del Comune di Chieti. Nel 1661 l’appalto della neve subì una riforma che si riporta in lingua originale: “Si imponga la jus esigendi (il diritto di riscossione) di sei carlini per ciascuna salma (una salma=275 litri) di neve e che la salma della neve abbia di essere di decine venti così che s’abbia da far pagare da tutte quelle persone che vogliono introdurre neve in questa città oppure da questa cavarla”.
Nella seconda metà del ‘700 la vendita della neve registrò una crescita soprattutto nel settore militare per uso medico. Il commercio della neve,in questo caso, era sottoposto ad un regime di monopolio attraverso l’assegnazione di una privativa a colui che si impegnava a vendere la neve al prezzo pi basso. Con questo criterio i proventi dell’attività non andavano a favore del Comune. Numerosi erano i  casi di revoca dell’appalto della neve da parte del Comune per motivi di scarsa efficienza da parte dell’appaltatore. Nel 1761, in seguito a proteste sull’affidabilità della gestione del commercio della neve, il Regio Capo della Neve del Comune di Chieti, decise di procedere ad una gara di appalto con il sistema della ‘candela vergine’. ( Con questo metodo il tempo disponibile veniva misurato dalla combustione di tre candele intatte, accese consecutivamente: quando la terza candela si spegneva l’incanto era deciso e si procedeva all’affissione di un “avviso di pronunciato deliberamento”, nel quale veniva pubblicamente reso noto il nuovo aggiudicatario.) L’aggiudicatario si impegnava ad assicurare un regolare servizio e se si fosse reso inadempiente, gli venivano sequestrati i beni.  Anche in questa attività esistevano casi di furto della neve a danno degli affittuari.
Pescara era una piazza importante per la vendita della neve che non solo serviva per conservare meglio gli alimenti ma era utilizzata anche per preparare sorbetti e bevande durante l’estate. Questa geniale attività scomparve agli inizi del  ‘900 quando incominciarono a diffondersi fabbriche che producevano ghiaccio artificiale.



Dogliola : Notizie Storiche

Dogliola è situata sulle rive del fiume Trigno. La prima attestazione documentaria del paese è del 1115, quando l’abitato fu donato da una potente famiglia di origine longobarda all’abate del monastero benedettino di Sant'Angelo in Cornacchiano. Nonostante la perdita di numerosi elementi del centro storico, tra cui la Chiesa parrocchiale, anticamente denominata Badia di Santa Maria delle Grazie, crollata alla fine del 1700, l’abitato conserva il suo aspetto medioevale nelle case-mura e nei sottoportici.

Nel 1805 fu edificata la nuova chiesa intitolata a San Rocco, in stile moderno, a navata unica, con la volta ornata da quattro dipinti di Nicola Sigismondi. La facciata, di disegno settecentesco, è impreziosita dal portale e da un finestrone in pietra scolpita, opere di maestranze molisane che in questo centro trovarono dimora stabile. La chiesa funge da centro di aggregazione e punto di riferimento per la comunità. La festa patronale San Rocco cade il 20 giugno, in prossimità della mietitura e, durante i festeggiamenti, carri e trattori vengono ornati con fasci di spighe di grano.

Anche a Dogliola, come in altri centri del Vastese, predominano tra i prodotti tipici i salumi, come ventricina e soppressata, insieme a piatti come le polpette cacio ed uova.




La pietra della vergogna della tradizione popolare abruzzese : LU TUMMERE

















Quando a Roccaraso e Pescocostanzo si vuol sottolineare che una certa persona versa in cattive condizioni economiche, si dice ancora oggi che essa ha misse lu cule a lu tùmmere (ha messo il sedere sul tomolo). La parola dialettale tùmmere deriva da tomolo ed indica non solo una misura agraria di superficie, corrispondente a mq. 2.700, ma anche – ed è ciò che in tale sede interessa — una misura di capacità per cereali, soprattutto grano, equivalente a circa 44 kg.

Lu tùmmere era di pietra e la sua forma ricorda quella di alcuni antichi mortai dove si tritavano sale e spezie, e che oggi sono assai ricercati per l'arredamento di ambienti rustici o per utilizzarli come soprammobile negli appartamenti moderni.

A Roccaraso ed in altri centri abruzzesi esisteva una specie di tùmmere pubblico nel quale veniva misurata la quantità di cereali data in prestito e che all'atto della restituzione doveva essere ancora misurata nello stesso
contenitore, con l’aggiunta di una certa quantità dello stesso cereale come interesse. La funzione di questo recipiente era probabilmente quella di costituire un punto fisso di riferimento in una economia regolata spesso dal baratto, ovviando così ai mutevoli regolamenti nell'ambito della compravendita ed al deprezzamento della moneta. Non sempre però chi aveva preso in prestito una certa quantità di cereali, misurata al tùmmere, era in grado di poterla restituire, soprattutto in seguito alla devastazione del raccolto da parte degli agenti atmosferici oppure a causa della siccità. Il creditore aveva allora due possibilità per rifarsi del danno subito: adire le vie normali della giustizia oppure vendicarsi in un modo alquanto singolare. Egli infatti, nel giorno e nell'ora comunicati in precedenza al debitore, costringeva quest'ultimo a recarsi nel luogo dove era situato il tùmmere ed a restarvi seduto per un certo tempo con il sedere completamente nudo, esposto così ai motti pungenti o alla commiserazione dei passanti.

Lu tùmmere di Roccaraso fu distrutto in seguito agli eventi della seconda guerra mondiale. Uno ben conservato e forse simile a quello di Roccaraso si ammira ancora oggi a Pacentro (AQ). A Pescocostanzo la pietra della vergogna è situata ai piedi della scalinata della chiesa di Santa Maria del Colle e nel 1966 la Pro Loco ha fatto rivivere ai divertiti turisti la scena del tùmmere, che nella tradizione locale presenta varianti degne di nota. Qui infatti, chi aveva molti debiti e non poteva pagarli, si recava alla messa grande celebrata di domenica nella suddetta chiesa e dopo la benedizione scendeva frettolosamente per la scalinata, ai cui piedi è situato come si è detto il tùmmere, e calatosi i pantaloni vi restava seduto fino a quando l'ultimo fedele non avesse abbandonato la chiesa. Egli si esponeva pertanto volontariamente alla gogna ma da quel momento non aveva più debiti. Infatti i creditori, per antica consuetudine, non potevano più perseguirlo legalmente, una specie di codice d'onore rispettato da entrambe le parti. .Questa antica tradizione giuridica vigeva secondo alcuni autori anche a Vasto ( dove esiste tuttora la Piazzetta del tomolo) ed a Ortona.
Lu tùmmere rappresentava una consuetudine giuridica popolare assai conosciuta in Abruzzo e forse ancora in vigore nel XVII secolo.





VILLALFONSINA  - Notizie storiche
Alcune fonti asseriscono che il borgo sia stato fondato nel XVI secolo dal suo feudatario, Alfonso Caracciolo, principe di San Buono e Barone di Casalbordino. Un’altra tesi ne fa derivare l’origine da una colonia di Schiavoni, approdata con tre imbarcazioni di fortuna alla foce del fiume Osento. La repressione turca che imperversava su tutta la penisola balcanica costringeva infatti grandi masse di popolazione alla ricerca di terre più ospitali.
Caratteristiche dell’antico borgo sono le case, impreziosite da alcune epigrafi sei-settecentesche e collegate da sottoportici, cortiletti, disimpegni e scalinate esterne, dette ”brancantelli”, veri luoghi di socialità oltre che di servizio. Su Piazza Roma si affaccia la Chiesa di Santa Maria della Neve, di stile barocco. Villalfosina è anche, soprattutto, un sito archeologico di grande interesse per il ritrovamento di numerosi reperti in zona Morandici, a circa 500 metri dal centro del paese, oggi esposti in parte al Museo di Chieti e in parte in quello di Vasto.
Gli scavi hanno portato alla luce una necropoli di 24 tombe, i resti di un tempio italico e di un centro abitato con fondi di capanne, a testimonianza dell’insediamento di un’antica tribù frentana.

'LA PANARDA' - Un antico modo di banchettare...rivisitato

L’alimentazione delle popolazioni abruzzesi,fino ai primi del ‘900,consisteva in legumi,granoturco,frumento,verdure e pasta fatta in casa(sagne).Raramente veniva consumata la carne,per lo più pollo e maiale. La Panarda costituisce un’importante pagina della storia delle tradizioni popolari dell’Abruzzo ed abbraccia un modello culturale che và dal devozionale,religioso al socio-economico,psicologico. Forse l’etimologia della parola deriva dall’unione delle parole pane e lardo, sta di fatto,comunque, che la Panarda consisteva in un pantagruelico banchetto dove veniva consumata un’enorme quantità di cibi considerati rari e preziosi, fino a 50 portate: antipasti,brodi di gallina,pasticci,timballi (il gran “callare del lesso”),carni arrosto,verdure,formaggi,salumi,frutta e dolci. Una vera e propria orgia alimentare,la cui ricorrenza era il 17 gennaio in funzione devozionale del Santo Antonio Abate,una festività che coincideva con il momento dell’uccisione del maiale e non solo, infatti era anche il momento più propizio dell’anno in cui le dispense delle case contadine erano ricche di beni preziosi:il raccolto del grano,la vendemmia. In queste festività era consuetudine che le famiglie più facoltose offrissero un banchetto al ceto più povero che per un lungo attimo,dimenticavano la consueta miseria. Sotto un profilo psicologico, questa celebrazione alimentare rappresentava,nella cultura contadina,un momento in cui si allentavano le tensioni accumulate in attesa del raccolto che assicurava loro la sopravvivenza ed inoltre rappresentava un omaggio al Santo protettore cui si chiedeva la benedizione per la nuova annata agricola. Le migliorate condizioni economiche avvenute dopo la seconda guerra mondiale, hanno esteso il concetto di Panarda, intesa come esibizione di ricchezza attraverso la presentazione di numerose portate. Questo cappello cognitivo è per sottolineare come sia importante rilanciare e rivalutare piatti e menu storici della tradizione gastronomica abruzzese. Molte aziende settoriali hanno introdotto il tema della Panarda nella loro offerta turistica grazie al ruolo fondamentale dell’Istituto Alberghiero di Villa Santa Maria che opera come laboratorio permanente di studio,ricerca ed innovazione. Partner dell’Istituto Alberghiero è la prestigiosa Accademia Italiana della Cucine che con il suo contributo ha realizzato,per il palato,piatti del pantagruelico banchetto. Fra le Panarde”storiche” vale la pena ricordarne una della fine dell’800 data da un signorotto aquilano in onore di Scarfoglio,d’Annunzio,Serao,Michetti,Melocchi e altri ospiti eccellenti abruzzesi e napoletani.Il banchetto era composto da 28 portate ed ogni portata veniva salutata con una salva di cannone;i piatti erano numerosi e sostanziosi e perciò il “guardiano di panarda” ,armato di fucile,controllava che tutti mangiassero tutto con la frase minacciosa “magne o te spare”! Era tutto un divertente scherzo. Il 1994 è stato l’anno in cui è stata riproposta,per la prima volta, la Panarda all’Istituto Alberghiero di Villa Santa Maria a scopo didattico e culturale. La manifestazione fu ripresa dalla televisione regionale e nazionale, da Rai International,da Canale 5 e cuochi villesi del Canada,dell’Australia e USA tempestarono di telefonate l’Istituto Alberghiero.Fu ricreato l’ambiente di fine ‘800 con costumi e musiche e non poteva mancare la presenza del “guardiano di Panarda” armato di fucile…scarico, e alla salva di cannone fu sostituito un rullo di tamburo e la resa di uno dei partecipanti al banchetto veniva canzonata al grido… di traditore. Le portate servite furono 51. Ci sarebbe altro da raccontare,ma mi fermo qui con una descrizione, che non può mancare,della Panarda abruzzese che comporta tassativamente otto antipasti di magro,cinque zuppe in brodo di carne,quattro portate di carni lessate,sei antipasti di grasso,un decotto caldo alle erbe aromatiche della Majella,quattro minestre asciutte,otto portate di carne arrosto,cinque verdure di stagione,cinque formaggi,quattro dolci della Val di Sangro,e per finire spaghettini aglio,olio novello e diavolicchio in abbondanza. La Panarda…un’esaltazione del cibo in sé che celebra la fatica dell’uomo,glorifica valori anche non cristiani e onora Sant’Antonio Abate,patrono degli animali da cortile.

Ringrazio di cuore il Kaos..il folletto gourmet…il sommelier…lo chef….il prof…. Carlo Miscischia per avermi fatto conoscere la fonte da cui ho tratto questa spettacolare tradizione abruzzese e indirettamente il Prof.Antonio Stanziani autore del libro nonché chef e docente dell’Istituto Alberghiero di Villa SantaMaria e autore di numerose pubblicazioni storico-gastronomiche.

"Banchetto in onore dell'Elettore di Sassonia" -Pietro Longhi

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